Luciano Piani Art

IL “MONDO DISTORTO” DI LUCIANO PIANI

Ricordando una confessione fattami in anni lontani da Fiorenzo Tomea – “Noi della montagna vediamo il mondo distorto” – scrivevo un giorno che, al di là degli individui linguaggi, un tratto comune unifica idealmente un intero corso di pittura espresso dalla fascia nord-orientale delle Alpi: un’ottica che stravolge le connotazioni del reale, una insopprimibile tendenza al visionario. Questa specifica disposizione interiore insorge dal rapporto che l’artista intrattiene con il microcosmo sociale in cui è inserito e, insieme, con il paesaggio che lo circonda. Che intrattiene naturaliter, al di fuori cioè d’ogni calcolo intellettualistico come di ogni riflessione linguistica.

Accadde anche a Luciano Piani, naturaliter, tanto che mi par del tutto superfluo ricercare per lui paternità prossime o remote  (Murer o Zancanaro o gli espressionisti tedeschi). In effetti la tensione che ne sommuove l’immagine, ed anzi la sconvolge e talora l’attorce fino allo spasimo, consegue puntualmente ai suoi modi di recepire la realtà in cui è immesso i quali svariano dall’urlo di denuncia alla lamentazione della sconfitta e allo sgomento che occupa l’animo di fronte alla inesorabilità di una solitudine opprimente, di una prigionia senza redenzione.

Questo rilevamento avverte che Luciano Piani è artista, si, di messaggio sociale ma di messaggio non contaminato e men che meno strumentalizzato a priori da postulati ideologici. Di messaggio, insomma, tradotto in termini esclusivamente personali, idonei a riferire intorno alla sua Weltanshauung: partecipe di una condizione umana collettiva, l’artista è sollecitato a farla oggetto di una testimonianza a lui esclusiva.

La popolazione di volti e di nudi che gremisce sovente lo spazio in un concitato sistema di giustapposizioni o, a dir meglio, di incontri-scontri , financo di sovrapposizioni, si propone a guisa di una enciclopedia di tipologie simboliche, nel senso che ciascuna trattiene un male segreto, una tara oscura, il prorompere di una follia che risale nel sangue attraverso generazioni, tanto da comporre una sorta di inferno terrestre, nei confronti del quale però non la maledizione ma la pietà è chiamata a esercitarsi.

Il Monstrum che si insinua nella divisa umana appare infatti del tutto incolpevole. È una creatura notturna nutrita per via fatale da misteriose energie inconsce che si colloca al di la del bene e del male ed è costantemente esposta all’attentato dell’arrogante eroe solare, autoproclamatosi depositario del verbo della verità: un Minotauro prossimo al sacrificio che verrà consumato da un Teseo, lucido assassino di turno.

Il discorso di Luciano Piani è inquietante poiché denuda nuclei di realtà identificabili negli assetti sociali contemporanei nonostante, ripeto, la sua attenzione venga rivolta al suo particolare microcosmo e soltanto da esso riceva stimolazione creativa, soltanto in esso ritrovi una specifica calibratura d’immagine.

Da queste immagini tormentate – nelle quali la rabbia protestataria è commista ad una invocazione alla giustizia – Piani trapassa a una visione fondata su armonici, superiori equilibri nella serenità olimpica il più alto traguardo dello spirito. Gli aspetti del suo mondo alpino, allora, si distendono in pacatezza di ritmi di larga cadenza per celebrare la nobiltà del lavoro, la saggezza della cultura, la gioia nell’amore e nella procreazione.

Con queste opere – la cui intonazione per certi versi si accorda con talune sculture – l’artista non smentisce se stesso ma, piuttosto, si completa adombrando la possibile esistenza di un Eliso oltre i confini del dilacerante labirinto infernale: dai gorghi dell’angoscia si affranca un’affermazione di fiducia umanistica che risuona similmente a parola consolatoria. Resta da notare che, sul piano della Stimmung, queste opere trovano con le altre un nesso sotterraneo ma identificabile, rappresentato dalla temperie fabulistica di cui sono fasciate, da quell’assorto incantamento che le sottrae alla contingenza per deporle nella polla di cristallo della trasfigurazione poetica.

Il “mondo distorto” di cui parlava l’indimenticabile Tomea continua a sussistere come presenza attiva e stimolante nelle fibre più criptiche degli artisti pensosi del destino dell’uomo che consuma le proprie giornate all’ombra di queste rocce e di questi boschi. Per Luciano Piani quell’ uomo è sentito come un fratello: il fratello cui accompagnarsi in un percorso fitto di insidie e di minacce, di violenze e seducenti inganni, con la ferma speranza, tuttavia, di raggiungere il limpido mattino della rinascenza.

DI CARLO MUNARI